Nelle lunghe discussioni di governo per trovare modi per poter coprire il gettito della manovra di bilancio, si arriva chiedere un contributo importante ai titolari di assegni appartenenti ai range di pensione medio e alti. La mossa riguarda il taglio alle rivalutazioni basate su due fattori concomitanti: un tasso di inflazione sconosciuto negli ultimi 40 anni, e l’entità della stretta progressiva che proprio per questa ragione raggiunge tagli decisamente più profondi rispetto al passato.
A pagare pegno in termini di mancati aumenti degli importi mensili è una platea abituata al tema. Si tratta dei pensionati che ricevono un trattamento superiore a quattro volte il minimo, vale a dire almeno 2.101,52 euro lordi al mese. Da questo importo in su, il dazio versato sull’altare dei conti pubblici cresce con l’importo della pensione.
I colpiti in base agli ultimi censimenti dell’Inps sono poco più di tre milioni, cioè quasi un pensionato su cinque. Si tratta, quindi, di un esercito di pensionati più numeroso rispetto ai beneficiati dalle nuove norme, che introducono una crescita maggiorata al 120% per le pensioni al minimo: indirizzate a poco più di due milioni di italiani, vale a dire un pensionato su otto.
La rinuncia a una quota dell’aumento collegato all’inflazione, è stato diversificato a seconda delle sei nuove fasce delineate dalla legge di bilancio. Nel confronto con il sistema attuale, che divide invece i pensionati in tre livelli, gli assegni fra quattro e cinque volte il minimo (cioè fra i 2.101,52 euro già citati e i 2.626,9 euro) il sacrificio è tutto sommato limitato: a 2.500 euro lordi si deve rinunciare a 18 euro di aumento. La distanza con il meccanismo attuale cresce però di fascia in fascia, fino a diventare parecchio rilevante. Con una pensione lorda da 4mila euro, per esempio, la rinuncia mensile sale a 73 euro, e arriva a 175 euro per un assegno da 6mila euro lordi al mese. A questi livelli, infatti, la quota di indicizzazione riconosciuta scende fino al 35%, mentre nel vecchio sistema non andava mai sotto al 75%. Ma c’è di più.
Il taglio sulle indicizzazioni, prima di tutto, è biennale, e agirà quindi nel 2023 e nel 2024. Ma come sempre accade in questi casi, l’effetto vero si cumula nel tempo, dal momento che anche le indicizzazioni del futuro saranno applicate a importi ridotti dal freno tirato nei prossimi due anni. La perdita per i diretti interessati, quindi, è strutturale e crescente. E, in modo speculare, ovviamente lo sono anche i risparmi per la finanza pubblica.
Si spiega così l’impatto calcolato dalla Ragioneria generale dello Stato. Nelle tabelle della relazione tecnica, la sforbiciata alle rivalutazioni riduce la spesa previdenziale di 36,8 miliardi in dieci anni. Nel 2023-25, coperto direttamente dalla manovra, le uscite rallentano rispetto al tendenziale di 10,2 miliardi (poco più di mezzo miliardo è però assorbito dalla rivalutazione rinforzata delle pensioni minime). Si tratta di cifre importanti, che però quasi evaporano rispetto a quelle, imponenti, dell’aumento complessivo della spesa previdenziale. Nei tendenziali della Nadef era calcolato in 58,1 miliardi in tre anni. La manovra sulle rivalutazioni, quindi, riduce del 17,5% il ritmo di crescita della spesa previdenziale. Che rimane elevato, e resta un problema destinato a tornare presto in cima all’agenda della politica economica.
Fonte: Redazione ALDEPI